giovedì 4 luglio 2013

Edemeridi, ovvero un argomento che scotta

Tra le foto di Coleotteri che in questo periodo Roberto mi sta passando scelgo quelle di alcuni Edeméridi (Oedemeridae), famiglia che in tutto il mondo comprende un migliaio di rappresentanti, le cui dimensioni vanno dai 5 ai 12 mm circa. Gli adulti si cibano di polline e nettare, mentre le larve sfruttano il legno morto ormai fradicio; meno di una cinquantina le specie presenti nel nostro paese. L’individuo raffigurato nella prima immagine, un maschio, dovrebbe appartenere alla specie Oedemera nobilis, mentre l’esemplare della seconda potrebbe esserne la femmina; uso il condizionale perché classificare un insetto in base alla sola fotografia è impresa tutt’altro che semplice, anzi spesso impossibile se non per sommi capi, data l’estrema somiglianza di molte specie tra loro.
Oedemera nobilis (?), maschio.

Oedemera nobilis (?), femmina
Anche se i nostri soggetti odierni, comuni sui fiori dei prati dalla tarda primavera in poi, potrebbero sembrare abbastanza insignificanti nell’ambito di una panoramica sulle svariatissime e sorprendenti forme dei Coleotteri, in realtà ci permettono di tirare in ballo più d’un argomento interessante. Incominciamo riprendendo un discorso cui avevamo già accennato a proposito degli Elateridi, la forma diversa nei due sessi. 

   Pur variando da una famiglia all’altra, nella gran parte dei casi le differenze riguardano soprattutto antenne, zampe anteriori e mandibole, che nel maschio hanno dimensioni maggiori anche di molto rispetto alla femmina (a volte, come in alcuni gruppi di Scarabeoidei, il ‘sesso forte’ inalbera sulla testa e/o sul pronoto anche corni più o meno spropositati, tanto minacciosi quanto innocui). Sovente anche il volume del corpo dell’animale segue la regola, che peraltro non è generale: in vari gruppi di Coleotteri – tra cui molti componenti dell’importantissima famiglia dei Cerambìcidi – le femmine, pur avendo appendici più ridotte, sono addirittura più grandi dei maschi. 

   Nel caso delle Oedemera, invece, le foto ci mostrano come questi ultimi siano spesso immediatamente riconoscibili dal vistoso ingrossamento delle “cosce” del terzo paio di zampe; e dato che ormai siamo abituati a chiederci il perché dei nomi scientifici, possiamo osservare come in questo caso l’etimologia sia quanto mai chiara e azzeccata. Oedemera viene infatti dal verbo oidéo = essere gonfio e da meròs = femore: “[insetto] dal femore rigonfio”  (attenzione, però: giusto per complicare la vita all’entomologo, lo specifico studioso degli insetti, ci sono anche Edemeridi in cui i femori dei maschi non sono ingrossati).
Maschio di una specie con femori normali?
Dopo averne dedotto che quel tratto della zampa di un Coleottero, anzi di un insetto in genere, porta lo stesso nome dell’osso principale della nostra gamba, approfittiamone per battezzare anche il resto. La descrizione anatomica ci servirà, tra l'altro, per definire un carattere esclusivo degli Edemeridi e di alcune famiglie loro vicine. 

Osserviamo l’esemplare della seconda foto, in cui la struttura degli arti è particolarmente evidente nell’ultimo paio. Sorvolando su due pezzi di piccole dimensioni – qui non visibili – mediante i quali la base del femore si articola alla superficie ventrale del torace, prendiamo in considerazione solo le parti più appariscenti della zampa: all’altra estremità del femore si innesta ad angolo il lungo segmento detto tibia, cui è a sua volta collegata una serie di segmenti più piccoli, denominati complessivamente tarso (l’elemento più lontano dal corpo, diverso dagli altri in quanto porta le due unghiette per la presa, viene distinto col nome specifico di pretarso).


Un maschio

 Una femmina con l’addome gonfio di uova.

Ed eccoci al dunque. Nella maggioranza dei Coleotteri i pezzi che compongono il tarso, tecnicamente tarsòmeri, sono in numero di tre in ognuna delle paia di zampe; nei nostri Edemeridi, invece, le anteriori e le medie hanno un tarsomero in più. Questa caratteristica, condivisa con una quindicina di altre famiglie (ricordiamo che l’intero ordine ne conta circa 120), le ha fatte riunire in una categoria a sé stante, detta degli Eteròmeri: termine che significa letteralmente ‘con parti diverse’. Se siete sopravvissuti fin qui vi spiegherò perché li ho tirati in ballo.

Gli Edemeridi sono chiamati in inglese pollen-feeding beetles, ‘Coleotteri che si cibano di polline’, ma anche false blister beetles, espressione che può essere tradotta con ‘falsi Coleotteri delle vesciche’: denominazione altrettanto precisa, ma che per i più necessita di una spiegazione.


La femmina di un’altra specie indeterminata.

I “veri” Coleotteri delle vesciche sono un’altra famiglia di Eteromeri, i Meloidi, che degli Edemeridi sono parenti molto stretti. Il loro appellativo è dovuto al fatto di contenere una sostanza tossica estremamente irritante, la cantaridina (nome derivato da quello della specie più famosa, la Cantaride), il cui contatto con l’epidermide causa vere e proprie ustioni simili a scottature, con la formazione delle relative bolle. 

Secondo i medici empirici dei secoli fortunatamente passati, questo processo contribuiva a stimolare la guarigione da alcune malattie e ad alleviare certi tipi di dolori. Fu così che la Cantaride o ‘mosca di Spagna’, raccolta in gran numero, essiccata e ridotta in polvere, entrò a far parte di appositi preparati da applicare sulla pelle, i cosiddetti vescicanti, ancora in uso almeno fino alla fine dell’800. Una cura del genere era però quanto mai fastidiosa, tanto che nell’antico dialetto milanese la parola ‘vescicante’ aveva preso anche il senso traslato di ‘seccatore, rompiscatole’. Da bambino, nei primi anni '50 del secolo scorso, feci in tempo a sentir citare il termine (che oggi credo pressoché scomparso) da un anziano milanesone, appassionato cultore dell’ idioma ambrosiano d’altri tempi, il quale riferendosi a una certa persona importuna ne dava a mia madre questa definizione: “Sciura, quell lì l’è un vesigaant”. 



Tornando ai nostri Edemeridi, anch’essi come i loro cugini contengono cantaridina, meritandosi dunque pienamente il nome inglese; attenzione perciò a non schiacciarvene inavvertitamente uno addosso.



Ancora una femmina con uova.
Per inciso e per finire, la Cantaride entrava anche nella composizione di un altro tipo di farmaci, da prendere per bocca, cui si attribuiva la facoltà di aumentare la potenza sessuale maschile. Se ai nostri giorni di questo effetto si mettono in discussione perlomeno la regolarità e l’intensità, è fuor di dubbio che l’ingestione di cantaridina, anche in piccolissime dosi, provoca gravi e irreparabili danni ai reni; del resto diversi scrittori greci di storia naturale, tra cui Aristotele, raccontano come un erbivoro che avesse ingerito insieme con l’erba del pascolo un non meglio specificato Meloide fosse condannato a morire di una gravissima e presumibilmente dolorosissima infiammazione interna. 

Ma dell’insetto che in greco antico era detto “il bruciabovino” e delle successive vicende di tale nome, oggi attribuito a torto a tutt’altra famiglia di Coleotteri (completamente innocui), riparleremo quando Roberto ci regalerà qualche scatto in proposito.

Giancarlo Colombo








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